A febbraio 2017 abbiamo fatto la nostra prima missione in Iraq. A pochi chilometri da Mosul. In lontananza si scorgeva il fumo e si potevano udire i rumori della guerra.
Qualcuno che collabora con la nostra associazione è rimasto lì per capire come potere aiutare le migliaia di civili intrappolati e che andrebbero evacuati anche con l’aiuto delle organizzazioni internazionali. Entro maggio, dicono, sarà tutto finito, e ci saranno da soccorrere e aiutare oltre un milione di civili. Perché ci siamo andati? Perché anche lì c’è bisogno, esattamente come in Turchia e Giordania su cui continueremo a lavorare.
In uno dei campi profughi yazidi curdi abbiamo trovato Elisa, la bambina che vedete in foto, affetta da Epidermolisi bollosa. Ha solo 3 anni. Elisa vive in un campo profughi organizzato, uno di quei campi ordinati, con tende ordinate, con accesso all’acqua potabile. Uno di quei campi con l’esercito all’ingresso e il perimetro militarizzato, in cui si accede solo se hai una guida yazida, se non parli l’arabo e se non fai fotografie (le uniche le abbiamo fatte a nostro rischio e pericolo). I campi organizzati sono meglio di quelli spontanei non ufficiali privi di ogni servizio? Non ne siamo sicuri. Nel campo in cui vive la piccola Elisa l’atmosfera è tesa e irreale. Si respira il clima di guerra anche se l’area è protetta.
Non troppo distante, fuori dal campo organizzato, in un agglomerato di baracche di yazidi curdi abbiamo trovato Dilgash, anche lui affetto da Epidermolisi bollosa. E’ gravissimo e soffre, tanto. Ha solo 9 anni e la notte viene svegliato dai dolori lancinanti che affliggono il suo piccolo corpo. Dilgash vive in una baracca, una delle tante che si trovano ovunque. Le condizioni di vita sono indescrivibili, manca tutto, acqua, cibo, servizi igienici. L’aria è irrespirabile per il fetore.
Elisa e Dilgash non si conoscono. Sono scappati entrambi con le famiglie dai loro villaggi, e possono ritenersi fortunati perché ne hanno ancora una. Nel poco tempo che abbiamo trascorso nei due campi abbiamo ascoltato storie terrificanti, abominevoli, storie che ti riportano indietro al secolo scorso, storie di fosse comuni, storie di violenze su donne, bambine, storie di villaggi bruciati dall’ISIS, di uomini che davanti la scelta duplice se convertirsi all’Islam o morire scelgono la seconda e vengono giustiziati davanti a mogli e figli.
Non sappiamo se i due bambini potranno sopravvivere. Marino Andolina, il pediatra che ci accompagna sempre nelle missioni ne dubita fortemente anche perché la malattia (che è una malattia genetica) è a uno stato molto avanzato. Quello che vorremmo fare è alleviare il loro dolore per il tempo che resta. Riusciremo a far operare Dilgash almeno
alle mani e ai piedi? Potremo portargli una carrozzina con cui almeno possa muoversi?
La missione è stata particolarmente pesante. I campi sono come sempre fonte di dolore. Noi veniamo, guardiamo e poi torniamo a casa, ma loro restano lì a soffrire pene che per noi sono difficilmente immaginabili. Torniamo in Italia con la morte nel cuore, ma sappiamo che torneremo presto. Non possiamo abbandonarli. Una volta che li hai guardati negli occhi non puoi più dimenticare quello sguardo che è un misto di profondo dolore, speranza e incredibile forza.