Missione esplorativa sui Balcani

Pubblichiamo il nostro rapporto sull’ultimo viaggio svolto dal 6 al 14 luglio in Bosnia nelle città di Velika Kladusa, di Bihac.

Parole di Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi a cui ci siamo uniti per una missione esplorativa dove abbiamo contribuito all’acquisto di generi di prima necessità, scarpe e vestiti delle persone incontrate. Sullo stesso confine coesistono confini diversi. Lo sappiamo, ma ci colpisce sempre. Andando in Bosnia, in questo mese di luglio, siamo ingoiati dal mondo sconfinato delle vacanze.

Lunghissime file di automobili al confine sloveno/croato – il meta-confine di Schengen! Piazzole di distributori di benzina e di ristoranti piene zeppe dell’accaldato popolo dei cittadini europei agiati o aspiranti o sedicenti tali. In questo caso, la lunga attesa al confine non è dovuta ai controlli ma soltanto all’automatismo della quantità! Vacanza viene da vacuum, vuoto. E vuoto ci appare l’agitato andirivieni di corpi e mezzi sull’asfalto. Coinvolti come siamo nella massa di persone e macchine che si aggira intorno ai distributori di carburante, l’odore di benzina ci ricorda qualcosa: a causa soprattutto del petrolio, che spinge le nostre automobili verso le affollate stazioni marittime, il cosiddetto Medioriente è un mondo di violenza e di morte – dai paesi ricchi, come gli Emirati, l’Arabia saudita, con le sue guerre e il suo feroce governo, ai paesi distrutti come l’Iraq, la Siria, la Libia… Tutto questo agisce anche in queste file di automobili, come nei gruppi di migranti e profughi che vagano nelle boscaglie o che si mettono nelle grinfie dei passeur.

Noi invece, protetti dal nostro statuto di cittadini dell’Unione Europea, stiamo andando verso un altro modo di esperire il confine: il confine vietato, il confine muro o filo spinato – quello buono, a farfalla per lacerare i corpi, già visto anni fa in Palestina. Lo attraversano, rischiando anche la vita, di notte o alle prime luci dell’alba, in piccoli gruppi sui monti, nei boschi, attraversando fiumi in cui si può annegare e si annega.

I migranti, i profughi mostrano la verità di questo vuoto: il vuoto di tutti noi.

Questa verità più che nella massa dei profughi dei campi o delle lunghe file per i pasti, si coglie soprattutto negli occhi dei singoli. L’abbiamo colta in pieno soprattutto negli occhi di una donna irachena, che chiamerò la farmacista di Bagdad.

È al Borici di Bihac con quattro figlie, dai diciotto agli otto anni. E’ fuggita da Bagdad da tre anni in seguito all’assassinio del marito e del figlioletto tredicenne per opera dell’ISIS. I militanti di Daesh, subito dopo, le hanno mandato l’ordine scritto di lasciare l’Iraq con le figlie, concedendole solo 72 ore di tempo. Non hanno amici o parenti in Europa. Non sanno dove andare, ma devono andare… devono muoversi, vagare in un mondo ostile o indifferente. Dopo un lungo, terribile viaggio, queste cinque donne tentano la rotta balcanica ma sono catturate in al confine tra Montenegro e Bosnia, picchiate, rinchiuse in prigione insieme ad altri per 36 ore e poi respinte nuovamente in Montenegro finché, dopo cinque tentativi riescono ad arrivare a Bihac. Domani (9 luglio) tenterà nuovamente il game verso la Croazia. Verremo subito a sapere che, questa volta, saranno bloccate prima ancora di varcare il confine. “Almeno si sono risparmiate le sevizie della polizia croata”, pensiamo con tristezza.

Mentre la gente delle vacanze persiste nel suo vuoto, che chiama vita, i migranti ci mostrano invece che è il vuoto. Lo fanno, inconsapevolmente, anche per tutti noi, esercitando un diritto che gli Stati non riconoscono e non possono riconoscere: il diritto di avere una vita degna di essere vissuta. I migranti sono perciò i portatori inconsapevoli di un messaggio di vita in un mondo che si nutre di morte: è il nostro mondo.

VELIKA KLADUŠA

A Kladuša, dove siamo andati con il dottor Andolina che portava materiale medico, non si vedono quasi più migranti in giro per la cittadina, a differenza dell’estate scorsa.

Anche in confronto al nostro ultimo viaggio (2 maggio ‘19), le strade del centro ci sono parse insolitamente vuote di migranti. Questo vuoto ci ha creato un senso di estraniazione e molta tristezza come di chiusura e di perdita di quella vitalità che prima si respirava nella cittadina di frontiera. I migranti che ci ancora sono, circa 300, 400 – mentre nel campo dentro il capannone Miral di Polje sarebbero circa settecento -, si nascondono nei boschi e nelle case abbandonate (squats) o stanno nelle strade marginali al massimo in piccoli gruppi, come i pochi nordafricani – forse una quindicina – che abbiamo incontrato davanti al ristorante di Latan, ora chiuso per mancanza di fondi. Ci siamo intrattenuti, in particolare, con due di loro, che parlavano un italiano appreso in un lungo soggiorno di lavoro in Italia, rispettivamente di 14 e di 17 anni. Poi, per vari motivi, perso il lavoro, erano rientrati in patria, non riuscendo più a tornare nel paese in cui anche oggi continuano a scorrere la speranze della loro vita.

I rifugiati rimasti fuori si nascondono perché, se presi dalla polizia, vengono trasportati nella discarica di Vucjak, il campo a un decina di chilometri da Bihac, che in poco tempo si è fatto una pessima fama.

La sera, abbiamo incontrato una giovane attivista di Border Violence Monitoring, équipe che documenta le violenze contro i migranti, in particolare in Montenegro e in Grecia. Grazie alle testimonianze raccolte dai migranti respinti nella zona di Kladusa, ci mostra una mappa dei vari punti in cui avvengono i push back, confermando le sevizie e violenze cui li sottopone la polizia croata. Almeno una cinquantina al giorno sono i migranti rigettati a Kladusa – corpi segnati dalla violenza. La prigionia in un container, senza cibo acqua gabinetto per 36 ore, è seguita dalla “liberazione” attraverso il cosiddetto “tunnel”, un corridoio tra due ali di poliziotti che bastonano il migrante a cui hanno accecato la vista spruzzandogli lo spray al peperoncino. Si susseguono poi tutti gli altri atti di violenza: furto del denaro, rottura dei cellulari, getto delle scarpe, zaini ed effetti personali bruciati.

Punti di respingimento

Recuperiamo varie altre informazioni anche su NNK, onlus ora registrata in Bosnia e a breve anche nel cantone Una Sana, che ha cercato di collaborare e sostenere Latan, il gestore del ristorante che distribuiva circa 400 pasti al giorno ai migranti, ma attualmente chiuso a causa della mancanza di fondi da parte dell’organizzazione olandese che lo finanziava all’ottanta per cento. Pare che anche la scarsa organizzazione e l’inadeguata rendicontazione, abbiano concorso a tale esito. Il risultato, comunque, sono le decine e decine di migranti, soprattutto algerini, che patiscono letteralmente la fame e vivono alla macchia. In seguito a conflitti scoppiati tra etnie nello scorso mese di maggio, le autorità hanno infatti deciso di escluderli (quasi tutti) dal campo Miral per cui si è venuta a creare una condizione di grave emarginazione che riguarda i magrebini. Respinti ai margini di ogni comunità, sopravvivono nella jungle, patendo letteralmente la fame.

NNK continua a fornire vestiario, mentre l’attivista storico di SOS team Kladusa, Adis Pixi, che lavora da solo, presta ancora la prima assistenza infermieristica.

Il giorno dopo, abbiamo incontrato la maestra Zehida Bihorac Odobasic, che da qualche tempo sosteniamo con le donazioni nel suo impegno solitario a Kladuša. Aiuta quattro/cinque gruppi composti di cinque o sei persone ciascuno e altri cinque gruppi nel Miral di Polje. In questi gruppi c’è un continuo ricambio: un giorno sono sei, un altro sono due. Vanno in game poi, spesso, dopo dieci giorni ritornano. Anche la polizia di Kladuša si è incattivita, pur senza raggiungere i livelli di Bihac. Zehida ci dice che anche al campo Miral, con gestione IOM, i ragazzi patiscono la fame. Evidentemente, la cospicua massa di denaro di cui fruisce l’IOM se ne va in sicurezza e stipendi, mentre per le spese di vita viene dato il minimo necessario e forse anche meno.

Zehida ci ha portati a incontrare una famiglia afgana. Davanti a una piccola abitazione agricola in rovina, con la porta sbarrata da assi, vediamo sull’erba, un uomo, padre di due ragazzi. Il più piccolo sei anni, il più grande 13. Hanno tentato più volte il “game”, ma sono sempre stati respinti. Altri due figli vivono con la madre in Germania. Sono in viaggio da Jalalabad dal 2016. Il padre lavorava con gli americani e i Talebani hanno minacciato di morte la sua famiglia. Il piccolo nucleo vive in questa catapecchia abbandonata, con la stalla al piano terra, nella campagna adiacente alla cittadina, non lontano da quello che era il campo spontaneo di Kladuša, chiuso nell’autunno. La struttura è fatiscente, senz’acqua e nient’altro che un tetto malandato. Per entrare bisogna passare attraverso un’apertura alta circa un metro. Cucinano con un fornello a gas. Quando piove molto, il vicino corso d’acqua invade il pianterreno in terra battuta, abitata da vermi, bisce, topi, scarafaggi. L’inverno è stato tremendo, ci riferisce il padre: “tanto, troppo freddo”. Zehida ospita spesso a casa sua il figlio più piccolo per alleviarlo dalla troppa pena, tristezza e nostalgia per la madre che lo aspetta in Germania, mentre sostiene con borse spesa l’intera famigliola.

Ahmed fuori dallo squat.

BIHAC

A Bihac siamo arrivati il tardo pomeriggio di domenica 7 luglio. Tornando dal nostro albergo a qualche chilometro dal centro, abbiamo dato un passaggio a tre ragazzi afgani respinti dal game, che ci hanno chiesto d’essere portati alla discarica di Vucjak. Non avendo speranza di essere riammessi al Bira camp, se domandavano il passaggio per Vucjak, voleva dire che erano veramente stremati, privi in quel momento di qualsiasi desiderio. Sappiamo – e lo abbiamo anche visto – che ce ne sono tanti lungo la strada che fiancheggia il confine croato in cima ai monti boscosi.

La sera abbiamo cenato con la farmacista irachena e con due migranti che ormai conosciamo bene, Hussein, il palestinese di Siria, nipote di un profugo del ‘48 e il ragazzo Fouad, operato al polmone qualche mese fa, per una patologia contratta in game.

La farmacista, moglie di un poliziotto che lavorava con gli americani, ci racconta la sua storia – e piange. Il pianto senza conforto di questa donna irachena, in una cittadina bosniaca, già teatro di episodi terribili nella guerra mondiale e in quella balcanica recente (ancora visibili nelle tracce dei proiettili sulle case), sembra raccogliere una disperazione lontana di popolazioni vittime di una storia mortifera di nazionalismi e razzismi, giocati dalle grandi potenze.

Hussein, che soffre di problemi cardiaci e di asma, ci racconta che è stato male durante l’ultimo game: ha dovuto uscire dalla jungle e scendere in strada con Fouad per chiamare la polizia. Sono stati rinchiusi in un box per sei ore senza cibo, senza acqua, con una bottiglia come unico ‘gabinetto’.

Il giorno dopo cerchiamo di entrare al campo Bira, ma non otteniamo il permesso, nonostante l’avessimo richiesto via e-mail la settimana precedente, seguendo tutta la procedura. Andiamo alla Croce Rossa per cercare di ottenere il permesso per il nuovo campo di Vucjak: anche lì senza risultato.

In questo campo, insediato su una ex discarica sotto la Plesevnića, a circa dieci chilometri da Bihac, gestito dal Comune, vengono mandati tutti i migranti del cantone Una-Sana, in tende e container. Lo gestisce la Croce Rossa di Bihac e vi partecipa anche l’IPSIA, con un angolo del thé. Tutti i ragazzi con cui parliamo affermano che è terribile. Anche chi vi collabora, per attenuarne un poco le caratteristiche peggiori, come i volontari dell’IPSIA, ci dicono che non può durare; che è una scelta politica del comune di Bihac, soprattutto per attirare l’attenzione internazionale sull’insostenibile situazione in città e dintorni.

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