Ogni volta che torno al campo, come è successo anche in quest’ultima missione, la prima domanda che sorge spontanea nel metterci piedi è: “Perché?”. Cammino fra le tende, lo sporco, il caldo infernale, gli adulti senza sorrisi, i bambini con sorrisi troppo grandi… e mi chiedo come sia possibile tutto ciò; come sia sopportabile da parte loro, tollerabile da parte nostra. E’ un interrogativo che mi arrovella per tutto il primo giorno, il giorno più duro, il giorno dell’impatto con quella realtà. E faccio fatica a starci, faccio fatica a farmene una ragione, faccio fatica a non arrabbiarmi, come medico e come persona. Di fronte a me ho un bambino malnutrito semplicemente perché non assume latte a sufficienza; ho una mamma che mi porta il figlio con la febbre alta da settimane, negli ospedali turchi non lo porta perché “tanto non lo considerano”; ho un malato di cancro terminale che non ha e non avrà accesso alla terapia del dolore; ho un ragazzo rimasto cieco da un occhio a causa di una scheggia come conseguenza di un’esplosione.
Poi, dopo la sberla iniziale, inizio a ricordami che se sono lì è anche (e soprattutto) perché da noi è tutto assolutamente semplice e scontato. Da noi le cure sono garantite sempre, e a tutti, cure di altissimo livello, visti i passi fatti dalla Medicina negli ultimi decenni, forse troppi, per quanto mi riguarda; una Medicina super tecnologica, all’avanguardia e interventista, spesso abusata; una Medicina in cui si stanno perdendo sempre di più l’approccio al malato, il dialogo, il prendersi cura prima che curare, la semplicità. Come è possibile che da un lato del mondo si abbia questo, e dall’altro si faccia fatica a reperire del Paracetamolo? Al campo fare il medico significa improvvisare, visti i pochissimi mezzi che si hanno a disposizione. Mi è capitato di non avere con me il fonendoscopio e di dover auscultare i polmoni di un bimbo direttamente con l’orecchio, cosa mai fatta prima. Al campo fare il medico significa parlare per provare a capirsi, cosa che da noi si sta perdendo; significa regalare una carezza e sorridere insieme quando non ho con me le medicine necessarie o quando non è nulla di così grave che non possa guarire per i fatti suoi. Al campo fare il medico significa sentirsi spesso poco utile, ma sentirsi spesso molto a casa. Il campo profughi è un grosso vuoto societario che di certo non possiamo colmare noi di SSCH; è un fallimento dell’umanità, perché significa aver abbandonato degli esseri umani in un limbo senza via di uscita. Ma alla fine ci si prova, a fare qualcosa: poco, pochissimo, quasi nulla; con la speranza che possa servire anche poco, pochissimo, quasi nulla.
La polvere, il sangue, le mosche, l’odore,
per strada e fra i campi la gente che muore.
E tu, tu la chiami guerra e non sai che cos’è,
e tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi perché.
L’autunno negli occhi, l’estate nel cuore,
la voglia di dare, l’istinto di avere.
E tu, tu lo chiami amore e non sai che cos’è,
e tu, tu lo chiami amore e non ti spieghi perché.
(Fabrizio De André, Terzo Intermezzo)