Sul campo di Moria, nell’isola di Lesbo (Grecia) è stato scritto molto, ci sono servizi fotografici e reportage e non mancano le sono polemiche.
Vorremmo noi dare una dimensione umana a quello che abbiamo visto e potuto fare. Siamo una piccola associazione con pochi mezzi ma volontà ferrea e siamo voluti intervenire recandoci, come sempre, di persona.
Il campo è diviso in due parti e si snoda su una collina che, quando piove, è solo fango e freddo.
Una parte è gestita e recintata da filo spinato, le persone ricevono un solo pasto al giorno per il quale si mettono in fila fin dalla mattina e restano in coda tutto il giorno. Esiste una zona solo per i minori non accompagnati, sono inavvicinabili e, di conseguenza, non aiutabili.
La seconda parte sorge all’esterno di quella recintata ed è a sua volta divisa in due zone, anche se non ufficialmente.
La parte in basso ha tende che sono state donate da qualche grande associazione, anche se vecchie e inadeguate, e gestita da un paio di associazioni. Non abbiamo capito bene come, crediamo che forniscano energia elettrica un paio di ore la sera e i servizi igienici. Un luogo pericoloso dove si consumano spesso violenze.
In alto invece le tende sono fatte di stracci e nessuna corrente elettrica, per il cibo tutti si recano invece nella medesima fila di 11mila persone.
La gente ha fame, i bambini sono malnutriti e naturalmente non ricevono istruzione e le cure mediche sono all’esterno del campo.
Nel campo coesistono a fatica diverse etnie e per questo è una polveriera di possibili scontri.
All’ingresso ti accoglie un grosso manifesto colorato con scritto “Benvenuti” in molte lingue ed è in netto contrasto con la desolazione che segue.
Persone che vagano senza meta, infreddoliti, soli, le ciabatte che sprofondano nel fango, lo sguardo perso o incattivito da mesi e mesi di quella prigionia.
Entriamo e cerchiamo di distribuire i pacchi che Nawal ed il suo team ci hanno fatto trovare pronti in una tenda ma veniamo praticamente cacciati da polizia e un’associazione locale che ci raccontano si occupa dell’energia elettrica. Non della distribuzione cibo.
Siamo costretti a distribuire dall’esterno, le persone scendono dalle loro tende e vengono a prendere i pacchi. Che sono molto generosi e ne siamo contenti.
Una volta che riusciamo a salire, al buio e fra fango e pozzanghere, il Dottor Andolina inizia a visitare chiunque ne abbia bisogno, tenda per tenda e in condizioni difficili.
Siamo in 4: Arianna, Andrea il fotografo, Gianluca e il dottor Andolina. Decidiamo di separarci e, mentre Andrea e il dottore finiscono le visite, io e Gianluca andiamo avanti con la distribuzione che si rivela difficile perché non abbiamo pacchi per tutti.
Lo avevamo messo in conto e cercato di scegliere i più fragili e bisognosi, ma quando poi un padre, una madre disperati ti chiedono cibo e tu lo hai finito, beh guardi davvero alla miseria umana con tutta l’indulgenza e l’empatia di cui sei capace. Ma di fatto sai che hai potuto fare il tuo massimo, ma che non basta e ti prefiggi di tornare e fare di più.
Distribuiamo cibo e cure mediche fino a sera inoltrata, cerchiamo come sempre quel contatto con le persone, con i bambini, che non tarda ad arrivare e leggiamo ancora una volta in quegli occhi la resilienza, la stessa che ci fa pensare che tornare e fare di più sarà la nostra prossima missione stabile.